Scrive Gian Alberto Dell'Acqua (critico
e storico d'arte, in presentazione alla mostra su Alessandro Manzoni,
Saronno, 1986, e in introduzione alla monografia "Omaggio a Gino Sandri",
1998):
«I disegni al "chiuso" costituiscono una testimonianza
eccezionale, a parte la lucidità di disegno impressionante di cui non
conosco equivalenti in altri artisti di questo momento e anche non i n
questo momento.
Sandri li ha eseguiti, questi disegni al "chiuso", un
po' per esorcizzare la propria infermità, come Van Gogh, che si difendeva
dalla malattia dipingendo in modo quasi frenetico, appena poteva tenere
in mano il pennello, per aiutarsi quindi a vivere, sia per consolare i
suoi compagni di sofferenza.
Nel loro complesso essi costituiscono una testimonianza davvero unica
e senza riscontri, sia per la qualità dei personaggi rappresentati, sia
per lo spirito di umana compassione con cui sono ritratti.
Non mancano certo nella pittura italiana tra Otto e Novecento immagini
della follia, dalla Sala delle agitate di Telemaco Signorini e dal Morocomio
del veneto Silvio Rolla, alla Pazza di Giacomo Balla.
Nessuna di queste però ha tratto origine da un coinvolgimento così diretto
e sofferto come quello di Sandri con la "somma di tristezze"
da cui si sentiva circondato. Proprio tale sua particolarissima condizione
ha consentito, a Sandri, di offrire la misura più alta di sé».
Scrive Vittorino Andreoli (
nell'introduzione al catalogo "Gino Sandri (1892-1959), luci dell'arte, ombre della follia", 2009 ):
«Gino Sandri ha vissuto da morto, ora da morto deve vivere perché è un
grande ritrattista e paesaggista, perché è un museo del manicomio e un
testimone del dolore della follia e della stupidità della psichiatria».